Si è spenta il 10 agosto 2023 all’età di 51 anni la scrittrice Michela Murgia.
Il giorno più triste è giunto troppo presto. Malgrado lo avesse annunciato al pubblico e ai suoi amici quasi presentando il suo male incurabile come un ospite da non combattere ma accettare come parte di lei, non potendolo rendere ‘altro’ da lei. Grande anche nella morte, grandissima nella scelta di aspettarla vivendo incondizionatamente, sorridendo e scrivendo fino all’ultimo, completando il libro che già le farà da seguito, pronto per essere pubblicato. Letteratura, creatività come indistinto atto d’amore per la vita. Nient’altro che, sempre e per sempre, un’assoluta e indomabile scelta poltica.
Di questa scrittrice, ironica e coerente, rigorosa e sorprendente, la scomparsa ci restituisce un netto richiamo alla passione che ne ha contraddistinto gesti, scritti, parole, vita.
Passione uguale convinzione, in coerenza serena e totale alle proprie idee, tale da risultare – quel rigore di metodo – la cifra stessa del suo pensiero critico, prim’ancora dell’analisi nel merito dei temi.
Dal femminismo all’antifascismo, dalla critica sociale alla stessa modulazione del concetto di famiglia.
La Famiglia d’anima di una credente cristiana
Famiglia senza legami se non d’amore, sangue o no. Bene ha osservato Tomaso Montanari nel suo ricordo della presenza di Michela tra gli studenti dell’Università per stranieri di Siena: “la sua, una piena adesione al vangelo, a quella anomala famiglia di Gesù di Nazareth”. Madre di figli d’anima, sposa ‘in articulo mortis’, in un rito celebrato controvoglia, da lei stessa definito “… così patriarcale e limitato, che ci costringe a ridurre alla rappresentazione della coppia un’esperienza molto più ricca e forte, dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo”. E pacifista perfino nel rifiuto della terminologia bellicista a proposito del cancro: nessuna lotta, nessuna battaglia per fare guerra al male estremo.
Dai call center al Campiello, il coraggio di scegliere da che parte stare
Lineare e coerente sempre, sperimenta da giovanissima la durezza di un lavoro sottopagato in un call center. Si laurea in teologia, sebbene con un diploma di istituto tecnico. Per 6 anni insegna religione e le importa che ‘tutti sappiano’, rifiutando la genderizzazione nelle professioni, nei mestieri, nella convivenza civile. Cinquantunenne nativa di Cabras, costa occidentale della Sardegna, è stata drammaturga, critica letteraria, premio Campiello 2010 con il romanzo Acabadora dove ha toccato e descritto tutta la magia arcaica dell’isola da cui ha saputo guardare il mondo delle convenzioni, delle storture, dei diritti da difendere e ri-leggere. Impegno e militanza sempre.
Davvero il momento più duro sarebbe comunque arrivato troppo presto.